Il Rave Perduto – Andrea Paolucci


image 1 e1466342170420 Racconti

(da questo racconto ha preso spunto il romanzo omonimo di Andrea Paolucci, se vuoi lo trovi QUI)

Uscivamo da scuola, mettevamo le cuffie, premevamo play sul walkman e coi motorini scappavamo a casa con un martello nelle orecchie. C’era Centro Suono Rave da ascoltare e registrare alla radio, con Luca Cucchetti, che per noi aveva creato un mantra.

Intorno a noi, il mondo era lo stesso, non era cambiato nulla dopo la caduta del Muro di Berlino, e la nostra generazione, equilibrista tra anni ‘80 e ‘90, attendeva qualcosa di più sostanziale della lotta musicale tra i Nirvana e i Pearl Jam, eredi della bizza esistenziale tra due band che si somigliano ma non sono uguali, come prima di loro furono i Duran Duran e gli Spandau Ballet.

I nostri coetanei passavano il sabato in qualche locale in ghingheri a fare a gara a chi aveva la camicia più bianca. Noi no. La camicia non aveva senso, soprattutto se bianca. Anche se abitavamo quartieri della Romabene, il principio restava lo stesso. L’abbigliamento per la festa doveva possedere qualcosa che desse la possibilità di esprimersi ed essere apprezzato da qualcuno che intanto vicino a noi ballava una musica nuova, senza voce, con suoni spaziali e ripetitivi che educavano la mente a un nuovo mondo sonoro iniziato a Detroit, con una succursale a Londra, così dicevano tutti, ma che a Roma stava prendendo una piega nuova, originale e unica.

Le situazioni migliori iniziano per caso, con una componente di fortuna, questo è sicuro, ma senza dubbio sempre con l’intento di concretizzare l’attimo che si sta vivendo per renderlo immortale.

Così andò a Roma quando noi eravamo appena usciti dall’adolescenza.

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Scappavamo a casa ad ascoltare Centro Suono Rave e a registrare questa nuova musica, la techno, che nel suo ripetitivo mix di suoni elettronici e casse pressoché sempre dritte, dava spazio a chiunque di lanciarsi in balli mai battuti dagli stili musicali precedenti. Senza voce e con tanti suoni, era l’apoteosi musicale che in una sorta di evoluzione tribale incarnava nel dj un dio il cui messaggio divino era la techno e i cui adepti eravamo noi, pronti lì ad accoglierlo.

C’era chi addirittura, a casa, accostava la techno ai libri perché ci trovava una personale forma di concentrazione. Era un meccanismo perfetto per noi. Semplice, come le creazioni migliori.

Ascoltavamo la techno con Centro Suono Rave, uscivamo, andavamo da Franco il Benzinaio o in un milione di altri posti, scovavamo il flyer che reclamizzava il prossimo rave e aspettavamo, allietandoci la settimana con radio e cassette della stessa emittente technofonica.

Il rave arrivava e quelli di noi più fortunati prendevano e uscivano con l’auto, mentre gli altri dovevano districarsi tra i tanti problemi che hanno ragazzi e ragazze molto giovani con feste che durano tutta la notte, tra passaggi in auto, dormite fuori da giustificare ai genitori, soldi per la serata e tutto quello che riguardava la gioventù del tempo, senza cellulari, messaggini in chat e nessun riferimento se non una sporadica cabina telefonica.

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I più audaci fiutarono il paradiso già dall’89, tirarono dentro i vicini nel ’90, ma la vera esplosione del fenomeno technologico avvenne nel ’91.

Quel motorino che usavamo per scappare a casa ad ascoltare Centro Suono Rave, diventava anche un alleato nelle notti del sabato, quelle più coraggiose, dove per i rave affrontavamo insidiose strade statali. Tipo la Cassia Bis, magari per arrivare al Maui, un luogo rubato al turismo spicciolo e trasformato in un tempio della techno, dove centinaia di adepti ascoltavano la performance del loro dio fino al sorgere del sole, dopo l’ultima preghiera ballerina, incrociando poi in strada la gente che andava verso mete campagnole alla ricerca di un prevedibile picnic. Lungo il ritorno sulla Cassia si fischiettava ancora qualche motivetto che il nostro dio aveva profuso in potenti casse divinatorie. Era l’estate del ’91 quando il Maui divenne celebre e quell’annata continuò a entusiasmarci in un’ascesa di emozioni e situazioni fuori dal comune.

Mentre gli altri cercavano sollazzo in discoteche convenzionali, noi fiutavamo il capannone adibito a festa e con le scarpe più adatte ci lanciavamo in pista incontrando il mondo intero che per l’occasione si svestiva dell’abito sociale e si lasciava andare senza pretendere nulla, se non il quieto vivere.

Destra e sinistra, erano solamente due mani utili a slanciarsi nel ballo. Nessun pregiudizio era permesso. Nessuna possibile incomprensione, perché la situazione era talmente positiva che nessuno andava in presa a male. Socializzare era semplice e alla portata di tutti, come incontrarsi in uno sguardo o perdersi in un bacio appassionato. Mentre il dj si esprimeva con technologica dedizione, in pista si spandeva l’amore. La complicità fluttuava nell’aria. Sguardi d’intesa s’incrociavano infiniti, si scambiavano chiacchiere circostanziate, ci si aiutava e si offriva, ci si abbracciava e si puntavano le mani verso il cielo come a tentare di raggiungerlo ora che il suolo era perfettamente nostro.

In questi casi, si fa sempre il paragone con il surfista e il cavallone d’acqua perché ci si accorge di aver cavalcato l’onda perfetta solo quando è finita. Così fu per noi, sulla cresta per tutto il ’92, con picchi assoluti come il rave di Who Is Ombrellaro, dove il dj creatore del mantra, Luca Cucchetti, festeggiò un compleanno al Quasar di Perugia con migliaia di adepti, invitati tramite Centro Suono Rave, o via flyer, e una schiera di super-dj come Lory D e gli Aphex Twin, per citarne due, e i migliori raggi laser dell’epoca a coccolare la pista da ballo. Festeggiammo dj Cucchetti in grande stile. Chi c’è stato, sa di essere passato per un evento che resterà unico nel suo genere.

E’ sempre lo stesso il problema dei sogni: sono irripetibili.

Raggiunto quel picco, qualcosa andò a scendere, a scemare, non nella musica e nei dj, che anzi continuavano a puntare all’olimpo sonoro, ma nel messaggio technologico che si stava divulgando oltremisura. In maniera incontrollabile, la voce si era sparsa troppo, anche molti di quelli che il sabato facevano a gara con le loro camicie bianche cominciarono a vestirsi con magliette eccentriche, scarpe da ginnastica comode, e a cercare flyer in giro per Roma.

I primi segnali arrivarono con una parola che fino al compleanno dell’Ombrellaro nessuno aveva mai pronunciato: rissa.

Cinque lettere, molto poche, ma che insieme sanno di alienazione, pericolo e vanno contro i principi cardine dell’amore e del quieto vivere. L’insoddisfazione, il malcontento e la negatività approdarono nei rave e con l’Espuma Eres Mia, un rave organizzato in un tranquillo circolo sportivo romano. Lì ci accorgemmo che qualcosa si era rotto. Le botte, viste in diretta, tra persone diverse che un tempo erano uguali in nome del rave e dell’amore per la techno, adesso restavano lontane. Incomprensibili. Si scontravano con brutalità costringendo l’Ombrellaro, dall’alto del suo mantra, a comunicare che quello sarebbe stato l’ultimo rave organizzato da Centro Suono Rave.

Noi, gli adepti che campavamo a pane e techno, non capivamo il senso. Ma chi di noi aveva beccato calci e pugni o era stato costretto a scappare lontano da gente che dello spirito del rave aveva al massimo il biglietto in tasca, cominciava a pensare che non sarebbe stata più la stessa cosa. La techno, quella sì, continuava con il suo flusso creativo indomabile. L’ambiente però si stava macchiando di qualcosa di indelebile per colpa delle risse che sempre più frequentemente facevano capolino nelle ore tarde della festa.

Fu al rave dell’Aquapiper che molti di noi smisero di credere che il concetto assoluto di divertimento sarebbe tornato nei raduni technologici.

Perché la gente a un certo punto iniziava a litigare?

Gli adepti non ne conoscevano il sentimento e di conseguenza neanche la risposta. In un connubio di musica ad alto volume, buio schizzato da luci stroboscopiche e un fiume selvaggio di gente, se qualcuno litiga e la lite si estende a qualcun altro, il risultato è esplosivo. Vedi un varco tra le persone ma nella confusione non capisci cosa succede fino a quando il nugolo di riottosi non ti viene addosso, in un panico sordo, senza che i tuoi riflessi possano opporsi, e ti coinvolge col malessere, la paura e una caduta verticale dal sogno all’incubo.

All’Aquapiper ci furono le botte serie. Il tunnel che di giorno portava i bagnanti alle piscine, diventò un ring claustrofobico. La rabbia dei repressi fu l’attrice principale di un film dell’orrore con un’eccellente colonna sonora. Un parco acquatico alle porte di Roma, quella notte fu il teatro della disfatta. Da quel giorno bande di disperati comparvero per rovinare quello che ancora non era andato distrutto.

La musica techno continuava a crescere. Contaminava ambienti nuovi e storiche discoteche fino a imporsi come nuovo genere collegato ai suoni elettronici, alle batterie virtuali e alla pista da ballo. Comparve addirittura la variante commerciale della techno, sdoganata alla massa con suoni più orecchiabili e tracce di voci accattivanti.

Noi ascoltavamo la radio con l’istinto di gridare che non era quello che avrebbe voluto Centro Suono Rave, o il re del Mantra Luca Cucchetti, ma le urla restavano in gola.

La stessa radio appassì lentamente, talmente piano che quando smise di essere un polo technologico, quasi nessuno di noi sentì il dolore istantaneo della perdita. Deflagrò in ritardo lo sdegno. Con gli adepti più fanatici che iniziarono a regalare la miriade di cassette di Centro Suono Rave. Registrate di giorno ma anche di notte.

Per esempio il sabato in occasione di chissà quale rave unico.

Molti di noi vollero cancellare il fatto di avere assistito a un mondo perfetto, dove l’amore pompava come una cassa dritta e l’empatia tra le persone vibrava cordialmente, in modo naturale. Fluiva come qualunque energia sana del mondo. Molti continuarono a cercare la techno in qualche festa che gli somigliava, anche se per un adepto la somiglianza resta sempre differenza. Altri la cercarono in qualche parte inesplorata del pianeta, nella speranza che potesse ricrearsi quell’idillio dei primissimi anni ‘90. Ai primi segnali di una possibile analogia, però venivano colti dal sospetto che qualcosa sarebbe potuto andare storto. E puntualmente così accadeva.

Il disincanto era ormai un’esperienza vissuta più volte. I ricordi però non si cancellano. Sono apparsi con quella musica divina su Youtube come un qualsiasi reperto storico. Quelli di noi che hanno voluto aprire una porta in quello splendido passato, l’hanno fatto con il cuore in gola. Con il coraggio per affrontare la consapevolezza che quel paradiso, come molti altri, è andato perduto per la stupidità umana. Ma il ricordo si tinge di vanità e al grido di ‘io c’ero!’ diventa un alleato nei racconti di vita quotidiana. Sapendo che si è stati parte di qualcosa di fantastico. Unico. Come il Suono di Roma di quegli anni e come Centro Suono Rave, del resto.

(Il Rave Perduto – racconto di Andrea Paolucci – Tutti i diritti riservati)

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