L’Ultimo Uomo Bianco, una citazione:
“A volte sembrava che la città fosse una città in lutto, e il Paese un Paese in lutto, e questo si addiceva a Anders, e si addiceva a Oona, dato che collimava con i loro sentimenti, ma altre volte sembrava il contrario, che stesse nascendo qualcosa di nuovo, e abbastanza stranamente anche questo si addiceva loro.”
Un mattino, Gregor Samsa si sveglia da sogni inquieti e si ritrova trasformato in un enorme insetto.
Anni dopo, Anders, personal trainer in un’anonima palestra di una città indefinita, si sveglia e scopre di essere diventato di un innegabile marrone scuro.
L’incredulità presto cede il passo alla furia omicida: Anders si sente vittima di un crimine che lo ha privato dell’identità.
Si scaglia contro la propria immagine allo specchio, si rimette a letto sperando che quell’uomo scuro se ne vada, si aggira per la città e scopre che «le persone che lo conoscevano non lo conoscevano più», e infine telefona a Oona.
Oona, giovane insegnante di yoga, sta provando a prendersi cura di sua madre – e di sé stessa – dopo la morte del fratello gemello.
Fra lei e Anders si è riaccesa un’attrazione nata fra i banchi di scuola, ma quando Oona passa da lui dopo il lavoro, rimane di stucco di fronte all’uomo che le apre la porta, fatica a riconoscerlo.
Ciò che Oona e Anders ancora non sanno è che la trasformazione sta prendendo piede ovunque.
Tutte le persone bianche stanno diventando scure, e la tensione sociale continuerà a crescere, sfociando in risse, sparatorie, suicidi e sommosse. Finché «l’ultimo uomo bianco» verrà sepolto e la bianchezza non sarà che un ricordo.
Hamid, in un vortice di frasi che, come i personaggi che le abitano, sembrano sorrette da un disperato bisogno di stabilità identitaria, confeziona un romanzo di commovente lucidità sulla perdita del privilegio.
Un’opera in cui frustrazione e violenza si trasformano però in una promessa di futuro. Quella che in La metamorfosi era un’esperienza individuale, ne L’Ultimo Uomo Bianco diviene un fenomeno sociale.
Mohsin Hamid parla del presente con il lessico del presente e, nel farlo, non fa sconti a nessuno, additando tutte le crepe di questa post-modernità.
Le crisi delle generazioni che ereditano fratture invece che patrimoni e devono essere anche molto caute quando provano a ricomporle, perché non solo ci tocca solo affrontare crisi climatiche, razzismo sistemico, diseguaglianze di genere, isolamento e segregazione emozionale, ma bisogna anche confortare chi di quelle fratture è stato l’artefice: i nostri genitori.
L’Ultimo Uomo Bianco è un dispositivo per l’immaginazione, alla Saramago, in cui si rende desiderabile una società diversa, che prova a smuoverci dalla cancrena della cronicità, dall’idea che qualunque frattura del mondo sia ormai insanabile, che sia da illusi provare a guarirla.
Hamid ci porta proprio lì, sulle rive di una possibilità di cura: culturale, sociale, affettiva.
Una possibilità che però non è mero torpore.
Hamid sembra quel professore del liceo, quello più bravo e più paziente, che ti spiega per l’ennesima volta una cosa che tu non hai voglia di comprendere. Quanto siamo cocciutamente, fragilmente arroccati nei nostri piccoli recinti fatti di fiammiferi.
Dobbiamo guardarci dentro, davvero, e rimboccarci le maniche.
Se lo vogliamo, il futuro è meglio di ciò che immaginiamo oggi.
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L’ULTIMO UOMO BIANCO – EINAUDI – 2023
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