Lo Stradone, una citazione:
“Jeans falso consumati. Falso strappati. Pantaloni falso mimetici. Borse mimetiche. Capelli falso giovani, rossastri. In giro falsi rasta. Falsi gangsta, falsi rap. Falsi punk. Falsi giovani. Borchie falsamente utili. Magliette falso scolorite. Falsa vita vissuta. Falsa esperienza, falso inconscio, falso immaginario, falsa coscienza. Falsa la metropoli, falso il lavoro. Falso legno, falso antico, false le cacche di mosca su falsi mobili. Il falso grezzo nei ristoranti falso-fichetti, o vero-fichetti per falsi fichetti. Falsi gli hipster con false barbe folte lunghe tagliate quadre, false camicie da falsi boscaioli, birre falso-artigianali. False calvizie, falsi muscoli con tatuaggi falso tribali. Veloci sfrecciano bassi falsi pappagalli verdi, frutto del riscaldamento globale, anch’esso artificiale, posticcio.”
Lo Stradone è un libro che sfugge a qualsiasi classificazione. Pagine taglienti che, scavando nelle carni del narratore, descrivono i miasmi di una città e di una società contemporanea incarognita.
Primi anni Venti di questo secolo nella «Città di Dio», metropoli decadente che assomiglia moltissimo a Roma. Un uomo di circa settant’anni osserva dal settimo piano della sua palazzina le vicende dello «Stradone». I tanti personaggi che lo percorrono incarnano tutte le forme del «Ristagno» della nostra società.
Invecchiamento e conformismo. Razzismo e sessismo. Sopravvivenze popolari e «trentelli» rampanti. Barbagli di verità, etnie in conflitto, il fantasma dell’integralismo islamico. L’appiattimento della cultura, la liquefazione di sinistre e destre e della classe media in un unico «Grande Ripieno». Nulla sfugge a questo narratore disordinato ma perspicace, che pare saper restituire meglio di chiunque – con ironia, cinismo, amarezza, nostalgia, umorismo – il non-senso del nostro presente.
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Racconta anche, il narratore senza nome, la propria esistenza di «Novecentesco». Come aspirante storico dell’arte, funzionario di Ministero, uomo che ha creduto nel comunismo e poi si è fatto socialista e corrotto. Racconta anche dei suoi amori e, oggi, dell’ossessione per la vecchiaia, la malattia, la pornografia. E che ricostruisce inoltre – con documenti veri o vero-simili – la storia di un quartiere (“La Sacca”), brano spontaneo di città operaia, i cui abitanti, manovali e proletari, per secoli e fin oltre la metà del Ventesimo hanno qui prodotto i laterizi su cui è stata edificata la città: il quartiere più comunista, antifascista e anarchico della «Città di Dio», forse visitato da Lenin – personaggio inatteso di queste pagine – nel 1908.
Il risultato è un unicum nel panorama letterario, un metaromanzo in cui la passione politica, estetica, antropologica e linguistica veicola le vicende di una vita, di un quartiere, di un secolo di storia italiana dando vita a un’esperienza di lettura potente e dolorosa, in cui si riflette molto e ci si incazza ancor più.
Lo Stradone racconta la microfisica del quotidiano, le distopie della post-modernità e il nulla morale ed intellettuale che trasuda da una società marezzata ove etica ed estetica, collegate, colano a picco nel “fiume di fango” come prigionieri incatenati l’uno all’altro.
Lo fa con un argomentare schietto e ampio, che gioca tra il principale e il secondario. Con un linguaggio che cambia registro continuamente, dall’alto al basso, da dotti excursus sulla storia della Città al volgare carpito nelle esiziali conversazioni al bar Porcacci, punto di snodo di molte riflessioni sulla contemporaneità. Per cui vale sempre l’assioma wittgensteiniano secondo il quale noi siamo ciò che diciamo.
Pecoraro si mette a nudo regalandoci un libro magnifico, totalizzante, fluviale. Come il marziano Kunt di Flaiano e Salines, veniamo fagocitati in un viaggio dolente nelle risacche della storia peninsulare e nel disfacimento estetico e civico della «Città di Dio», di cui siamo tutti un po’ colpevoli in quanto civitas.
Un libro che non offre auto-assoluzioni, ma sordide verità.
A ogni buon conto, chapeau!
LO STRADONE – PONTE ALLE GRAZIE – 2019
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