Storie Scellerate di Roberto Baldassarre – Recensione


Storie Scellerate Recensioni

Storie Scellerate, una citazione:

“Naif? E mica so’ un fregnone.”

Sergio Citti è stato un “irregolare” del cinema italiano. Che si è sempre definito cantastorie più che regista.

Storie Scellerate è un’antologia che raccoglie i temi principali del cinema dell’autore capitolino.

Senza Sergio Citti probabilmente Pier Paolo Pasolini non avrebbe potuto descrivere così vividamente le borgate romane.

Lui quel mondo lo conosceva bene, e fornì un apporto fondamentale ai romanzi ed ai film di PPP, introducendolo nelle borgate romane e indicandogli quelle facce che erano necessarie per le sue pellicole.

Ma il suo aiuto fu anche essenziale per vivacizzare il linguaggio delle scene, dandogli un’accentuazione più romana.

Fra Citti e Pasolini s’instaurò un profondo rapporto di amicizia, tanto che lo scrittore-regista lo volle come fondamentale collaboratore alla realizzazione di tanti suoi film.

Citti, forte di queste prove e anche di altre collaborazioni filmiche, nel 1970 esordì alla regia con “Ostia”, film influenzato dalle prime esperienze pasoliniane.

Il suo talento sarà poi confermato dal secondo lungometraggio, “Storie Scellerate” del 1973.

La pellicola, a suo tempo, fu erroneamente annoverata tra i decamerotici.

Un abbaglio, perché il film, inizialmente pensato come un Decameron numero 2 nelle mani di Citti, coadiuvato in sceneggiatura da Pasolini, era un personale novelliere che mescolava la cultura alta (Bandello, Belli, Boccaccio) con quella bassa (storie orali, stornelli, proverbi e fattacci).

In quegli anni, il panorama del cinema italiano erano popolato da film originali e coraggiosi, come Storie Scellerate.

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Nel film troviamo rappresentati personaggi inconsueti del mondo popolano.

Due condannati a morte nella Roma ottocentesca che si raccontano, prima di venire condannati a morte per furto e omicidio, storie che ruotano attorno al sesso, all’astuzia, all’inganno, secondo la migliore tradizione della novella italiana da Boccaccio in poi.

Su tutto, anche in momenti di comicità, aleggia la morte come condizione universale che accomuna tutti: gentiluomini e lestofanti, giovani e vecchi, ricchi e poveri, marci e puri.

La Roma del XIX° secolo è scelta come ambientazione perché vi si possono ravvisare le radici della cultura borgatara in cui sono cresciuti i fratelli Citti.

Così, una semplice proposta nata per cavalcare il fiorente filone avviato da Il Decameron si trasformò in un’opera peculiare, personalissima.

Storie Scellerate omette le storie d’amore per privilegiare il lato tragico della vita, attraverso un realismo cinico, corposo, vigoroso e menefreghista.

Quando era bambino Sergio amava accompagnare il padre nelle osterie delle borgate, per mettersi in un angolo e ascoltare i racconti. Tra un bicchiere di vino e una partita a carte, gli uomini amavano raccontare “storie scellerate”, ovvero fattacci o cronache nere, del passato oppure recenti.

È da queste piccole situazioni che Citti cominciò a conservare nella memoria “storie di vita” tramandate oralmente, maturando quella distanza critica verso la realtà che poi, come regista, gli permetterà di esprimere con sfumature favolistiche anche gli aspetti più prosaici dell’esistenza.

In Storie scellerate la chiave, sia ideologica che espressiva, è una sorta di laico vitalismo, in cui il fantastico e il soprannaturale sono rappresentati solo in quanto possibilità narrativa.

I ghirigori tecnici nel cinema cittiano sono pochissimi.

C’è invece molto del suo substrato, del suo estro, del suo sguardo. Lucido, disincantato, coerente.

Sergio, in tutte le sue opere, è riuscito a infondere una serafica visione del mondo, sempre calata nella tradizione popolare.

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