Storytelling D’Impresa – Intervista Andrea Fontana

Storytelling D’Impresa – Intervista Andrea Fontana

Andrea Fontana

Andrea Fontana dopo la recensione di Storytelling D’Impresa si racconta a noi in un’intervista.

La narrazione costruisce e distrugge. C’è un lato oscuro dei racconti oggi.Per esempio con le Fake news, le cospirazioni on line, i cyberattacchi, sono una sorta di “parte tossica”. Cosa manca al nostro mondo per scongiurare un nuovo medioevo che la parte oscura della narrazione può portare?

Tu mi hai definito e ti ringrazio, fondatore di una corrente di pensiero che hai chiamato “illuminismo digitale”. Riprendo la tua definizione per dire che non puoi essere un “illuminista digitale” e fare storytelling senza conoscere la parte tossica, quella oscura, dei racconti. I racconti soprattutto identitari sono parti costitutive di noi, te li porti dietro. Nel bene ti edificano, nel male possono umiliarci, denigrarci, sminuirci.

Hai ragione le scienze narrative oggi sono uno strumento potentissimo per definire il reale. E possono essere usate per creare la conoscenza o deformare l’informazione. Per certi versi sono parte delle nuove armi che gli eserciti usano. Non a caso anche la NATO ha dei protocolli per questo tipo di attività.

Per rispondere però alla tua domanda parto dal passato.

Tutto il secolo scorso, il Novecento, è stato un inno alla razionalità oggettiva: nel lavoro, nella scienza, nella vita, persino nelle guerre che hanno dilaniato quel secolo. Poi però ci siamo ritrovati in un ambiente sociale, economico e politico piuttosto diverso, in cui le competenze non necessariamente giustificano la notorietà o l’autorevolezza di una istituzione o di una personalità (scientifica, morale, etc) e dove la realtà è definita dalla percezione soggettiva che link, hashtag, video, foto e meme portano con sé. In questo ambiente leggende e credenze hanno la stessa credibilità di notizie e conoscenze accertate. E l’opinione personale di un influencer (qualsiasi influenzatore) può diventare verità di fatto nell’esperienza dei pubblici da cui è seguito.

Il Novecento aveva “regimi di verità” ufficiali – che indicavano cosa credere, anche con imposizioni di potere. Oggi invece viviamo in “regimi di verità” multipli che dipendono dal grado di notorietà della fonte e dalla capacità e bravura narrativa della stessa. Oltre che dai nostri “credo” individuali.

Questo è dunque il grande passaggio: dalla conoscenza istituzionale data e provata (da enti e organizzazioni, politiche, sociali e aziendali) stiamo passando alla conoscenza personale, in cui le convinzioni individuali – per quanto illogiche – diventano fonte di verità ed esperienza condivisa. Che rifiuta la fonte istituzionale, accusata sempre di essere impositiva e collusa col potere istituzionalizzato.

Per questo, quello che conta – nel bene e nel male – non è tanto il contenuto verificato, ma come viene raccontato: reso empatico e radicalizzato. In questa nuova età – non della ragione, ma delle emozioni radicali – la fiction vince su qualsiasi fatto, perché le credenze personali si fanno più forti – anche nell’errore – di qualsiasi spiegazione scientifica. Ho provato ad approfondire il tema in questo mio testo: Regimi di verità edito da Codice.

Come sopravvivere quindi in questo nuovo regime di verità in cui siamo entrati?

La sfida è aperta e lanciata a tutti noi: non tanto dai complottisti, ma dai media (social e non solo) che stiamo usando, che ci spingono a esaltare l’esperienza personale, e dai modi in cui costruiamo la conoscenza sempre più empatica e caricata di valenze estremiste.

Dobbiamo prepararci a gestire gruppi a conoscenza personale alternativa (deformata o meno) che sempre di più sorgerà nei prossimi mesi o anni. Ricordandoci che il conoscere non è mai dato da una verità assoluta – altrimenti diventa pensiero unico –  ma da un processo sociale che evolve e involve in pratiche interconnesse. Dove il dialogo rimane una possibile soluzione di confronto e gestione dei conflitti. Questa è una via per evitare il nuovo medioevo.

In ‘Ballando con l’Apocalisse‘ hai scritto che siamo all’interno di “cambiamenti catastrofici”. Quindi, il mondo cambia senza sosta, noi come possiamo seguirlo senza perderci?

Ho scritto quel libro prima che la vicenda Covid-19 iniziasse. Molti studi e molti report ci dicono che il decennio che abbiamo iniziato 2020-2030 trasformerà completamente la storia umana: nel bene o nel male.

Dipenderà da tutti noi se andare verso una “civiltà stellare” o un nuovo medioevo.

Per seguire i grandi cambiamenti in corso basterà viverli. Posso solo darti una mia prospettiva. Personalmente, cerco di mettere in pratica alcune buone norme per me:

  • leggere qualsiasi tipo di informazione e di farmi un’idea critica di quello che accade, mettendo in discussione tutto (perché non c’è più nulla di permanente)
  • confrontarmi con le persone: colleghi, collaboratori, studenti, amici, clienti, sconosciuti, etc… per raccogliere diversi punti di vista
  • mandare avanti il piano A e preparare dei piani B, perché oggi devi essere flessibile, leggero e agile.

Ma soprattutto cerco sempre di capire in quale narrazione sono immerso per non subirla ma sceglierla e viverla da protagonista. Mi trovo in una storia collettiva epica, tragica, avventurosa, horror, thriller… ? Cosa posso fare per non sottostare alle imposizione casuali della Storia ma provare a gestire il flusso narrativo dei destini incrociati di tutti noi?

Questo perché credo che le grandi sfide dei prossimi anni staranno nel capire come conciliare elementi che abbiamo sempre considerato opposti ma che opposti non sono:

  • Economia e Socialità
  • Individuo e Stato
  • Sicurezza e Libertà
  • Lavoro e Benessere
  • Passioni e Ragioni

Dobbiamo trovare una nuova narrazione che sappia conciliare:

  • forza con fragilità,
  • fallimento con successo,
  • individualismo e comunità,
  • potere con cura e gentilezza.

Sarà una bella sfida per comunicatori, brand manager, marketers. Che ci porterà non solo verso i “civic brand” come qualcuno suggerisce, ma verso i “destiny brand”, cioè organizzazioni e marche che sappiano costruire nuovi destini di vita

Un tuo testo fondativo sullo Storytelling è del 2016. Si intitola Storytelling d’impresa. La guida definitiva. Perché hai sentito l’esigenza di scrivere una seconda e nuova edizione di questo libro?

Sono passati quasi 5 anni dalla prima edizione. Era tempo di rivederla e soprattutto aggiornarla con nuovi casi e nuove pratiche. Di solito una seconda edizione è ri-scritta al 20% e mantenuta uguale all’80%.

Qui, invece ho voluto invertire i poli. La nuova edizione di ‘Storytelling d’impresa’ è scritta ex-novo all’80% e mantenuta al 20%. Tanto che abbiamo modificato il sottotitolo e aggiunto una nuova parola: “storymaking

Ecco, nella nuova edizione di ‘Storytelling d’impresa’ parli proprio di Storymaking. Ci spieghi meglio cosa intendi?

Facciamo una premessa. Come dicevamo prima stiamo vivendo un periodo di grandissimi e “biblici” cambiamenti.  Quando attraversi cambiamenti catastrofici, che cambiano stili di vita, economie, dimensioni socio-politiche, lo Storytelling ti aiuta non solo a definire nuovi contenuti di vita, prodotto o marca, ma anche a trovare e definire una nuova cornice di realtà, ti supporta nella tenuta del morale e della motivazione, ti guida verso il futuro. Ma se non sei coerente e autentico vieni spazzato via.

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Lo Storymaking è la normale conseguenza di uno Storytelling fatto bene in tempi di turbolenza critica.

Cioè la coerenza tra raccontato e agito. Perché se racconti di essere qualcosa o di saper fare certe attività o di avere certe soluzioni (di vita o di business), poi devi anche avere la capacità di metterle in pratica e di testimoniare con la tua storia di vita la forza del tuo racconto. Questo per il branding, personale o aziendale, diventa una indicazione fondamentale in un’epoca di cambiamenti epocali come la nostra. Non puoi più solo pensare di fare Storytelling in un’ottica di costruzione di buoni contenuti, ma anche e soprattutto devi fare Storymaking: diventare testimone concreto della tua narrazione. Una sorta di attivista sociale e di marca che lotta concretamente contro una serie di problemi per un futuro migliore.

Hai fondato percorsi formativi e master didattici. Credi veramente che lo Storytelling come pratica sia accessibile a tutti? Davvero, basta studiare per diventare storyteller?

Certamente. Studiare e praticare tanto. Io ho imparato strada facendo e nella scuola della vita.

Parte della mia attività professionale poi sta nella divulgazione e nell’insegnamento.

Per esempio, con:

  • Storyfactory – l’azienda di cui sono Presidente – e l’attività di supporto alle aziende e ai brand nel loro raccontarsi,
  • l’Università di Pavia dove insegno da molti anni Storytelling e Narrazione d’impresa, e dove abbiamo creato recentemente il primo master universitario di secondo livello in Marketing utilities & Storytelling Techniques (MUST)
  • l’Università IULM dove insegno “Visual Narrative For Business” e dove, in collaborazione con MARPI abbiamo creato il Master Executive in ‘Corporate Storytelling‘ (dedicato a professionisti/e e manager)

Però lasciami dare un consiglio. Non si diventa Storyteller se non si ha il coraggio di perdersi e ritrovarsi. Nessuna scuola, ripeto nessun corso, potrà mai insegnarti come andare oltre te stesso per scoprire nuovi racconti di te e degli altri.

Lo storytelling, lo storymaking e i brand. Pensi che queste attività possano aiutare i brand a influenzare positivamente il nostro mondo?
Assolutamente sì.

Nei mesi difficili vissuti e in quelli che ancora dobbiamo vivere, nell’ “inverno caldo” che ci aspetta, molte organizzazioni non solo dovranno prendere posizioni su problemi sociali rilevanti cercando di risolverli direttamente (nell’attività di marketing che viene definita “brand activism”) ma dovranno anche dare vita ad un vero e proprio storymaking che manifesti un “sistema di personaggi” capace:

  1. di raccontare l’azienda da differenti punti di vista, in quella che viene definita “leadeship sociale diffusa”.
  2. di portare l’organizzazione alla risoluzione di problemi per cui l’azienda stessa sta lottando.

Sei stato il pioniere in Italia dello Storytelling. Ma nessuno conosce la storia di com’è nata la tua passione. Ce la racconti?

Credo sia nato tutto da mio padre. Era appassionato di fantascienza, aveva un’enorme collezione di testi fantascientifici: una fanta-letteratura con sfumature sociologiche, tecnologiche, religiose… Insomma, di tutto. Da bambino e adolescente non condividevo la sua passione, mi sembrava una di quelle cose che fanno gli adulti e che i ragazzi non fanno; ma lui – con dolcezza – mi lasciava spesso sul mio comodino un libro con un piccolo foglio o post-it con su scritto: “Questo è per te”. Ogni tanto lo cambiava, con un nuovo libro e un nuovo biglietto. E il giorno dopo, mi chiedeva: “Ti è piaciuto il libro?” E io rispondevo: “No Papà, non l’ho ancora letto”. Era ormai diventato una specie di gioco tra me e lui.

Un giorno, avevo circa 14 anni, presi in mano un testo. Si intitolava Cronache della galassia detto anche Prima fondazione; era un testo di A. Asimov del 1951. Mi persi in quel libro e nei successivi (perché è un ciclo di romanzi). In questa narrazione, si racconta la vita e la storia di uno scienziato, chiamato Hari Seldon che per salvare la galassia inventa una nuova scienza: la psico-storia e con essa vive varie avventure che lascio al lettore scoprire. Ovviamente ero consapevole che stavo leggendo un romanzo, parto di una letteratura fantascientifica, ma allo stesso tempo, non sapevo perché, percepivo la psico-storia come vera; per me quella scienza esisteva. Da lì mi si aprì un mondo e iniziai a condividere questa grande passione con mio padre.

Ma soprattutto, credo che quello fu il momento in cui incontrai lo Storytelling. La scienza dei racconti di sé e degli altri. La scienza in grado di cambiare i destini: ovvero la Psico-storia.

Poi quello che venne dopo e quello che avviene ancora oggi è la conseguenza delle ispirazioni che mi diede Asimov fin dall’adolescenza. In un certo senso, potrei dirti – con una battuta da scrittore di fantascienza e per sorridere un po’ – che mi sento Hari Seldon.

Ormai lo Storytelling, grazie ai tuoi studi e lavori è diventato parte della vita, personale e professionale, di molti di noi. Quando hai compreso che sarebbe diventata parte della tua? 

La passione è nata presto, ma l’ho compreso tardi. Cioè il seme della psico-storia (o Storytelling per me) è avvenuto in giovane età, ma ho dovuto prima entrare nel mondo del lavoro. Quindi studiare, laurearmi, iniziare a lavorare con le aziende, nel mondo della consulenza organizzativa.

Ad un certo punto, intorno al 2005, dopo più di dieci anni di vita lavorativa, mi sono accorto che quello che stava iniziando ad arrivare tra: social media, biografia come nuova frontiera comunicativa, disintermediazione del reale, e molto altro, erano tutti temi che si potevano ritrovare nella Psico-storia di Asimov.

E quindi ho iniziato a capire che lo Stoytelling poteva non solo essere un’arte da coltivare ma una scienza da studiare, apprendere e applicare per il cambiamento dei destini delle persone, delle aziende, delle istituzioni. Lo Storytelling è sempre stato parte della mia vita, ma prima è rimasto sotto traccia, ha lavorato in me nel profondo, poi è esploso come mio personale destino.

Nuovi progetti in vista? 

Molti, legati alla Galassia e alla Civiltà Stellari.

Ma prima, riprendendo la tua definizione: l’ “illuminismo digitale” dovrà lottare contro l’oscurità che priva del futuro, perché c’è sempre da attraversare il buio della valle oscura, prima di vedere la luce.

E di questo avremo modo di riparlare.

STORYTELLING D’IMPRESA – HOEPLI 2020

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