Graziano Gala torna a pizzicare le corde della nostra inquietudine con Popoff, un romanzo che sembra piccolo come un sasso raccolto in spiaggia, e invece, mentre lo tieni in mano, ti accorgi che pesa più del previsto.
È una storia compatta, ruvida e gentile allo stesso tempo, che non cerca scorciatoie emotive ma ti ci accompagna, passo dopo passo, come uno di quei cani randagi che capiscono al volo se sei uno di cui fidarsi.
In Popoff, il protagonista, è un ragazzino “sbagliato” nel modo in cui solo certi luoghi, certe famiglie, certi silenzi riescono a far sentire.
Un figlio di nessuno, o forse figlio di troppi, cresciuto in un mondo che gli insegna a parlare a mezza bocca, a desiderare a mezza voce. La narrazione segue il suo percorso di formazione, ma lo fa scansando a piedi pari ogni trappola retorica: niente santificazioni del disagio, niente edulcorazioni.
Gala racconta Popoff con una lingua schietta, elastica, a tratti tenerissima, capace di scivolare da una scena di abbandono a un lampo di comicità amara senza mai far rumore.
La vera forza del romanzo sta nella sua ambientazione: un Sud che non è mai cartolina, né inferno folkloristico. È un Sud sospeso, popolato da ombre che hanno la consistenza delle case mai finite, delle strade polverose dove ogni gesto (anche solo dare un calcio a una lattina) pesa come una dichiarazione d’intenti. Gala disegna questo mondo senza bisogno di litanie descrittive: gli basta una macchia d’umidità su un muro, una bestemmia detta a mezza bocca, una partita a pallone improvvisata in uno slargo per restituirci l’atmosfera.
Popoff è anche, e soprattutto, un romanzo sui margini. Non quelli sociali soltanto, ma quelli dell’anima: il margine tra il rassegnarsi e il ribellarsi, tra il restare e l’andarsene, tra il farsi accarezzare e il tirare un morso. I personaggi che gravitano attorno a Popoff sono tutti segnati da questa tensione: figure a metà, acciaccate, eppure ancora capaci di sognare a occhi stretti, come fanno i bambini quando sanno che nessuno li sta guardando.
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La scrittura di Gala è precisa come una fionda: ogni parola è tesa, scagliata con cura, ma senza ostentazione. C’è poesia, ma è una poesia di schegge e cicatrici, che non si vergogna di essere sporca di terra e sudore.
Il ritmo del romanzo, poi, è calibrato su quello di Popoff stesso: a tratti accelerato, come quando la rabbia spinge a correre senza sapere dove andare di preciso; a tratti rallentato, come nelle giornate d’estate in cui il tempo si sfilaccia e non resta che mordere l’attesa afosa di una giornata senza scopi apparenti.
Leggere Popoff è come entrare in un cortile di periferia al tramonto: non sai se ti accoglieranno o se ti tireranno un sasso, ma una volta dentro ti rendi conto che quello spazio, ruvido, sghembo, vivo, è anche un pezzo di te. Gala non ci offre redenzioni facili né finali rassicuranti, ma una fiducia sotterranea nell’umanità, nella sua ostinazione a resistere anche quando sembrerebbe più sensato arrendersi.
In definitiva, Popoff è un libro che non si lascia leggere distrattamente: ti chiama, ti strattona, ti costringe a sporcarti le mani con i pensieri che normalmente tieni a bada. E alla fine, quando chiudi l’ultima pagina, ti resta addosso come il sale dopo un bagno di nascosto: un po’ brucia, ma non vorresti mai sciacquarlo via.
È anche un ottimo regalo per l’amico/a in cerca di un romanzo che descriva un mondo preciso e che abbia un protagonista particolare con uno scopo diverso dal solito.
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