La Scienza Di Stephen King di M. Hafdahl e K. Florence – Recensione


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C’è un momento, leggendo La Scienza Di Stephen King, in cui ti chiedi se la paura, quella vera, non sia proprio la scienza. Non il mostro sotto al letto, ma il perché del mostro. Il DNA del terrore.

Meg Hafdahl e Kelly Florence non scrivono un libro: piuttosto, disossano il terrore. Lo sventrano con il bisturi della curiosità e lo ricuciono con i fili, spesso inquietanti, della medicina, della psicologia, della biologia.

In La Scienza Di Stephen King, ci si ritrova a camminare in equilibrio precario tra due mondi: da una parte il brivido gotico, viscerale, la nebbia del Maine e i clown che spuntano dai tombini; dall’altra, il freddo raziocinio della scienza, che guarda al male con il distacco del microscopio, ma finisce per spaventare ancora di più.

Perché sì, può fare più paura un esperimento mal riuscito che un fantasma.

Le autrici, Meg Hafdahl e Kelly Florence, che non sono scienziate pazze ma divulgatrici pop intelligenti, riescono in un’impresa curiosamente kinghiana: trasformare la familiarità in orrore.

Ogni capitolo parte da un romanzo di King — Carrie, Shining, Misery, It, Cujo eccetera — e da lì scava nelle implicazioni scientifiche. Tipo: cosa succede davvero al cervello di Jack Torrance quando sprofonda nella follia? E Carrie: è una povera adolescente schiacciata dalla repressione religiosa o un caso clinico di psicocinesi patologica?

Spoiler: è entrambe le cose. Ed è questo il bello.

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Il tono è accessibile, ma mai banale. Hafdahl e Florence parlano come due amiche al bar, solo che al posto dello spritz hanno una laurea in psicologia e una passione per gli esperimenti medici del XIX secolo. Riescono a essere sincere senza essere accademiche, e divertenti senza scadere nel cazzeggio.

Ti raccontano che cosa c’è dietro il morso di un cane rabbioso, e intanto ti fanno rivalutare Cujo, che magari avevi liquidato come “quello con il San Bernardo”. Ti portano dentro le stanze dell’Overlook Hotel e ti mostrano che l’albergo maledetto può essere una metafora del trauma familiare, ma anche un interessante caso di isolamento psicotico.

La Scienza Di Stephen King è costruito con cura episodica, ogni capitolo un piccolo saggio tematico: la dipendenza, il contagio, la follia, il dolore cronico, l’intelligenza artificiale, la sopravvivenza.

È come entrare in un museo dell’orrore in cui ogni stanza ha un’etichetta scientifica sotto al cadavere. Ma non pensiate di uscirne rassicurati. Perché la vera forza del libro è quella di smascherare l’illusione che la scienza ci salvi sempre. A volte, dice Hafdahl, la scienza è solo un modo più sofisticato per parlare del nostro caos interno.

Chi ama Stephen King troverà in questo libro una specie di seduta psicoanalitica collettiva. Ma attenzione: non è necessario essere cultori di King per apprezzarlo. Perché alla fine La Scienza Di Stephen King non è un tributo, ma un laboratorio. Dove i racconti diventano cavie e il lettore lo scienziato.

Certo, a tratti si sente il taglio americano nella struttura: ogni tanto ci si aspetta che spunti un podcast a metà capitolo, o che le autrici dicano “stay tuned” con voce da trailer. Ma è un peccato veniale, compensato dalla sincerità con cui trattano anche gli aspetti più scabrosi del dolore umano. E soprattutto, dalla capacità rara di rendere vivo ciò che normalmente vive chiuso nei cassetti polverosi della scienza: il corpo, la mente, la paura, la morte.

In definitiva, La Scienza Di Stephen King è un saggio mascherato da racconto del terrore. O forse il contrario. È il libro perfetto per chi ama il lato oscuro, ma vuole sapere anche da dove viene. È una dissezione brillante del mostro e dell’umano che se lo inventa.

E dopo averlo letto, vi assicuro, non guarderete più una gabbia di topi allo stesso modo.

LA SCIENZA DI STEPHEN KING – APOGEO – 2024

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