Recensione di Il Corpo In Cui Sono Nata – G. Nettel

Recensione di Il Corpo In Cui Sono Nata – G. Nettel

Il Corpo In Cui Sono Nata, opera di Guadalupe Nettel, è un memoir raccontato in prima persona dalla protagonista.

È completamente autobiografico? O delle parti sfumano nella finzione narrativa? Ha poco importanza.

Quello che conta, che conta davvero, è l’ autenticità emotiva con cui Il Corpo In Cui Sono Nata ci accompagna.

Il personaggio femminile narrante ci conduce nel suo passato con dei chiari riferimenti al presente. Rivolgendosi “a un’ onnipresente ma invisibile” Dottoressa Sazlavski. Come in una seduta di psicanalisi lunga 180 pagine.

Nel Il Corpo In Cui Sono Nata siamo negli anni ’70 a Città del Messico. Sullo sfondo un paese dai mille contrasti. Ricchezza, povertà, conflitti sociali, caos, poesia e lotta.

La nostra protagonista, che mai dichiara il suo nome, con grande intimità ci mette al corrente sin da subito del suo difetto alla vista che le ha pregiudicato un approccio sereno all’ infanzia.

«Sono nata con un neo bianco, che altri chiamano voglia, sulla cornea dell’ occhio destro. Sarebbe stata una cosa del tutto irrilevante se la macchia in questione non si fosse trovata nel mezzo dell’ iride, cioè proprio sulla pupilla, da dove la luce penetra fino al fondo del cervello. All’ epoca i trapianti di cornea sui bambini appena nati non si eseguivano ancora: il neo era condannato a rimanere lì per diversi anni.»

Tutto ruota, almeno nella prima parte, intorno alla sua capacità di adattamento alla vita, seppure impossibilitata a vedere bene, almeno da un occhio.

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E così, in questo clima di disarmante ironia, facciamo conoscenza anche con la sua famiglia. Un microcosmo molto dinamico dai modi stravaganti e dalle “politiche familiari libertarie” sulla scia dei movimenti hippie degli anni ’70, ma dove le contraddizioni non mancano.

La madre è una donna alla continua ricerca di se stessa, ossessionata dal voler risolvere il difetto visivo della figlia. Un mix esplosivo di comprensione, fragilità, autorità e eccentricità. Il padre è un uomo capace di amare, presente, a volte collerico ma estremamente simpatico.

E poi Lucas il fratello-amico, con cui condividere lo spazio, il tempo anche le passioni. Come quella per il calcio. In questo contesto la bambina narrante cresce affrontando le prime difficoltà scolastiche, i primi dolori. Approdando all’ adolescenza con una grande consapevolezza. Pur ignorando di averla.

La prima grande rottura nel Il Corpo In Cui Sono Nata arriva quando, nel pieno degli anni ’80, trascorsi “i rivoluzionari moti hippie”, la famiglia si sgretola. I coniugi si separano. Ognuno per la sua strada. Letteralmente, visto che il padre sparisce alla vista dei figli per un po’, pagine dopo avremo modo di capire il perché. E la madre si trasferisce in Francia.

Da questo momento in poi la narrazione rende conto delle continue trasformazioni, piccole battaglie quotidiane e scoperte che la nostra, a questo punto, adolescente narrante deve affrontare. Tra un viaggio e l’ altro, tra lo svelare, intuire, amare e odiare il proprio corpo.

«Finalmente, dopo un lungo periplo, mi ero decisa ad abitare il corpo in cui ero nata, con tutte le sue particolarità. In fin dei conti era l’ unica cosa che mi apparteneva e mi vincolava in modo tangibile al mondo, e insieme mi consentiva di distinguermene.»

Questo racconto in prima persona, tra passato e presente, è pure empatia. Con tono dissacrante, leggero, mai banale ripercorriamo la dura arte del crescere e dello stare al mondo. La ricerca della propria identità. Il segreto, forse in fondo è venire a patti con l’esistenza. Solidarizzando con le nostre incertezze e paure. Con i nostri fantasmi.

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