Recensione di Memorie Di Un’Orsa Polare – Yoko Tawada

Recensione di Memorie Di Un’Orsa Polare – Yoko Tawada

Memorie Di Un’Orsa Polare, una citazione:

L’identità nazionale è sempre stata estranea agli orsi polari. Avevano l’abitudine di concepire i loro piccoli in Groenlandia, di partorirli in Canada e di crescerli in Unione Sovietica. Non avevano cittadinanza, né passaporto. Non andavano mai in esilio, attraversavano i confini senza chiedere il permesso a nessuno.

Parafrasando Philip K. Dick, Sognano gli orsi delle pecore elettriche? Ci sono plantigradi che imparano le lingue ed hanno senso critico, viaggiano, si innamorano di umani e leggono Heinrich Heine.

Memorie Di Un’Orsa Polare racconta delle vicissitudini di una famiglia, per quanto inusitata, di ben tre generazioni di bianchi orsi polari che attraversano un secolo di storia umana.

La prima è la storia della matriarca, prima stella del circo sovietico sotto la curatela del custode Ivan, che in una seconda vita si scopre valente autrice delle proprie memorie, passando dagli spettacoli circensi di Mosca ad una apprezzata carriera di scrittrice tra Berlino e il Canada.

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Sua figlia Tosca, che si trasferisce con la famiglia in Germania orientale. Diventerà provetta ballerina di tango nei circhi, insieme ad una compagnia di altri nove orsi polari, grazie al legame speciale che instaura con la sua addestratrice Barbara.

Infine Knut – “la voglia di latte chiamata Knut” – il figlio che Tosca abbandona per seguire la sua vena artistica, che si ritrova affidato alla mamma adottiva, il custode dello zoo di Berlino, il quale cresce assediato da giornalisti e visitatori, avendo in pugno l’alta e la bassa marea del pubblico.

Orsi che diventano i simboli delle ansie e delle idiosincrasie degli umani, ai quali, pur tuttavia, loro rimangono strettamente e visceralmente legati, in un rapporto che è difficile spiegare, tra ancestrali richiami alla propria identità animale e l’appartenenza alle comunità ed alle culture degli uomini del XX secolo.

Un libro magico – per quanto si abusi spesso di questa parola – che parla in modo deliziosamente stravagante di integrazione. Del sentirsi sempre esuli e mai al posto giusto. Di amore per la vita e per ogni forma di vita. Della ricerca interiore, dopo tutto e malgrado tutto, della nostra forma autentica.

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Yoko Tawada ci parla dell’essere umano attraverso gli occhi di orsi ammaestrati, ma che spesso e volentieri sono più disincantati, e complessi, di quelli che li hanno trasformati in qualcosa d’altro rispetto al loro lignaggio e natura.

Orsi nivei che hanno talenti e compassione da vendere, al contrario degli umani con cui interagiscono i quali, depressi o persi in mille disquisizioni e questioni esistenziali, non hanno granché da insegnare loro, dopo tutto.

“Matthias corrugava le sopracciglia e penetrava con il suo sguardo nelle profondità degli occhi dell’orso polare. Knut però avrebbe preferito essere un lottatore piuttosto che uno specchio e agguantò l’uomo noioso che per un attimo aveva voluto fare il filosofo.”

È attraverso i loro occhi che veniamo osservati, con uno sguardo misto tra curiosità e commiserazione per questi glabri homo sapiens che si arrogano giudizi e diritti che in un mondo basato soltanto sulle leggi naturali non potrebbero avere.

Perché nel mondo animale non esistono barriere economiche o sociali, linguistiche o ideologiche.

Senza tanti orpelli o sovrastrutture, ciò che conta è seguire la propria natura.

Qualunque essa sia.

MEMORIE DI UN’ORSA POLARE – GUANDA 2017

 

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