Lettera a un Giovane Calciatore – Intervista Darwin Pastorin

Lettera a un Giovane Calciatore – Intervista Darwin Pastorin

 

Cosa ti ha spinto a scrivere Lettera a un giovane calciatore?

Per cominciare: la bella telefonata di Maurizio Donati della casa editrice “chiarelettere”. A farmi scrivere questo libro sono stati, infine, due giovani: un calciatore e un tifoso. Il primo è il figlio, un bravissimo centrocampista, di un mio amico: sono andato a vederlo in azione, felice sul prato verde, giocare per divertirsi; mi ha fatto bene, tra l’altro, tornare sui campi di periferia, quei campi dove poco lontano passa il treno: ho riassaporato l’epifania del pallone, dove tutto comincia.

Ma non potrò mai dimenticare la fotografia di quel giovane sostenitore della Chapecoense, la squadra che inseguiva un sogno, la finale di andata contro i colombiani del Nacional per la Coppa Sudamericana, e quel sogno si è frantumato con l’aereo precipitato prima dell’atterraggio all’aeroporto di Medellín: piangeva, quel ragazzino, da solo, sugli spalti dello stadio della Chape, subito dopo la tragedia, avvolto dalla bandiera della sua squadra del cuore. Quelle due immagini, la felicità da una parte e il dolore dall’altra mi hanno riportato in libreria…

Come hai fatto in tutti questi anni a mantenere la visione romantica del calcio che troviamo in Lettera a un giovane calciatore?

Cercando la “salvezza”, soprattutto, nella memoria, nella letteratura, ascoltando le partite alla radio, recuperando il calcio di una volta con i miei amici campioni Pietro Anastasi, l’idolo della mia giovinezza, e José Altafini, il mio primo beniamino (giocava nel mio amato Palmeiras nelle stagioni della mia infanzia brasiliana, a San Paolo). C’era la poesia, era un’epoca romantica, sui giornali vivevano i racconti e non il mercato.

Il football moderno lo seguo, certo: ma non mi fa battere il cuore. Anche perché il “marketing” ha sostituito il “dribbling”: il business, voglio dire, ha preso il posto dell’immaginazione. È un football di “lontananza” e non di “vicinanza”.

Oltre ad essere un cronista sportivo e uno scrittore sei stato uno sportivo?

Da ragazzo, moltissimo. Sono cresciuto, a livello giovanile, in due storici club torinesi, Bacigalupo e Pertusa, e sono stato il centravanti della rappresentativa del mio liceo (il V Scientifico, ora Alessandro Volta): segnavo molti gol. E cercavo, ovviamente, di imitare le movenze e le rovesciate di Anastasi. Ho praticato l’atletica leggera: 100 metri e salto in lungo, sotto la guida del professor Gianfranco Porqueddu, vincendo una medaglia d’oro, sempre a livello studentesco, nella 4×100 (1974). Oggi sono un ottimo… camminatore, con sempre sottobraccio un libro o un quotidiano. Finendo, così, spesso, su una panchina a leggere!

Se non avessi fatto il giornalista cosa avresti fatto?

In terza elementare, alla Silvio Pellico di Torino, il maestro Ugo Pagliuca mi chiese: “Cosa vuoi fare da grande?”.

Non avevo dubbi: “Il giornalista”. Avevo, già a nove anni, quel sogno: e sono riuscito a realizzarlo. Mi affascina, comunque, il mestiere dell’insegnante.

Una partita che ti è rimasta nel cuore?

Italia-Brasile del 5 luglio 1982. Le mie due nazionali contro, il mio primo mondiale da cronista, la Seleçao favorita che crolla, 3-2, davanti alla forza e all’orgoglio degli azzurri di Bearzot, Paolo Rossi, sino a quel momento un “fantasma”, che realizza una memorabile tripletta, le lacrime verdeoro, Zoff e Scirea, Leo Junior e Socrates… Una partita epica, indimenticabile. Con in tribuna stampa narratori del calibro di Giovanni Arpino, Oreste del Buono, Mario Soldati e Gianni Brera.

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Vivi a Torino, che città è?

Amo Torino, da sempre. Sono arrivato in questa città nel 1961, dal Brasile, a sei anni. Una città che aveva, come intuì Giovanni Arpino, la sua salvezza nel fatto di essere “operaia”. La Fiat Mirafiori rappresentava il cuore d’acciaio del nostro Paese. Certo, era una città che andava a dormire presto e si alzava presto, ma ricca di storia, con il Museo Egizio, il Museo del Cinema all’interno della Mole Antonelliana, con il vecchio e caro Filadelfia, il tempio degli eroi del Grande Torino. Le Olimpiadi invernali hanno permesso a Torino di fare un fondamentale salto di qualità: diventando un luogo di riferimento per una moltitudine di turisti. Un luogo dove ogni giorno hai qualcosa da fare, da vedere, da sentire, da ascoltare. Il Circolo dei Lettori è un gioiello per chi ama la letteratura. Una città che da “particolare” si è trasformata in “universale”.

Come è oggi il tuo rapporto con il calcio?

In questo momento, il mio rapporto è distaccato. Come ti ho detto prima: mi regala meno emozioni. Probabilmente passerà: anche perché il calcio, soprattutto da un punto di vista culturale e sociale, appartiene alla mia formazione, alla mia vita.

Tre consigli da dare a chi vorrebbe intraprendere la carriera calcistica oggi?

Giocare per passione, portare la fantasia sul prato verde, imparare la cultura della sconfitta. Rialzarsi dopo un rigore fallito o un autogol commesso.

In Lettera a un giovane calciatore critichi, neanche troppo velatamente, l’atteggiamento di cieca ambizione che spesso hanno i genitori nei confronti dei figli che giocano a calcio. Queste dinamiche sono sempre le stesse o le hai viste mutare negli anni?

Un tempo i genitori restavano ai margini del prato, e anche della scuola. Ti rispondo con Giovanni Lodetti. L’ex centrocampista del Milan mi disse, un giorno: “Sai Darwin, ho intenzione di mettere su una scuola calcio”, “Mi sembra una buona idea…”, “Con tre campi e un cinema”, “Giovanni, il cinema perché?”, “Per mandarci padri e madri quando i loro figli giocano o si allenano”. Non servono altri commenti… Ma esistono ancora, va detto, tantissime isole felici, moltissimi genitori responsabili.

Il giocatore più forte, quello più simpatico e quello più sopravvalutato degli ultimi 20 anni?

Maradona, il più grande di sempre. Un fenomeno. Il Borges del football. Stefano Tacconi era divertente, esagerato, spontaneo. Troppi i calciatori sopravvalutati per trovarne uno…

Da italo-brasiliano cosa ne pensi dello Ius Soli?

Sono nato in Brasile da genitori italiani e ho avuto subito la cittadinanza brasiliana. Sono arrivato in Italia e sono diventato immediatamente italiano. Il Senato deve votare una legge, ferma da due anni, che rappresenta il minimo sindacale per una democrazia. Si tratta, poi, come sappiamo, di uno ius soli temperato.

 Il primo libro che è stato per te importante e uno che non sei riuscito a finire?

Il Corsaro Nero di Salgari, l’inizio della mia avventura nei grandi pascoli della letteratura. Finisco tutti i libri, anche i più brutti e i noiosi.

Se fossi un libro saresti?

“Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway. Mio figlio si chiama Santiago in onore del protagonista di questo meraviglioso romanzo.

LETTERA A UN GIOVANE CALCIATORE – CHIARELETTERE – 2017

 

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