Territorial Pissings di Kurt Cobain – Recensione

Territorial Pissings di Kurt Cobain – Recensione

Territorial Pissings, una citazione:

“La mia musica è quello che faccio; la mia famiglia è quello che sono. Quando tutti avranno dimenticato i Nirvana, e io sarò in un tour nostalgico ad aprire per i Temptations e i Four Tops, Frances sarà ancora mia figlia e Courtney sarà ancora mia moglie. Questo per me conta più di qualsiasi altra cosa.”

Oggi sono esattamente 30 anni che Kurt Cobain non c’è più.

Il 5 aprile del 1994 infatti, con un colpo di fucile, Kurt si toglie la vita.

Ha ventisette anni, come ventisette anni avevano, al momento della morte, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison.

Tre anni prima, con Nevermind, i Nirvana avevano cambiato per sempre la storia della musica rock, con una serie di canzoni nelle quali i Beatles e la sensibilità punk trovavano un incredibile e armonico punto d’incontro.

Accanto al corpo di Cobain viene ritrovata una lettera d’addio.

In essa, emergono con chiarezza la difficoltà nel gestire il successo e l’esposizione mediatica, lo stato di sofferenza fisica che lo avevano indotto a usare l’eroina come antidolorifico, l’incapacità di conciliare una sensibilità fuori dal comune con una fama improvvisa e travolgente.

Le interviste raccolte in Territorial Pissings consentono di ricostruire, attraverso le sue stesse parole, la vita, le idee, la concezione musicale di un genio fragile.

“Io sono l’anti-guitar-hero. A stento posso dire di saper suonare. Sono il primo ad ammettere che non sono un virtuoso. Non so suonare come Segovia. Ma probabilmente Segovia non saprebbe mai suonare come me.”

Un artista che ha saputo, quasi contro la sua stessa volontà, farsi portavoce di una generazione lontana dagli antichi sogni rivoluzionari e dalle grandi ideologie ma carica di una creatività e di una rabbia probabilmente irripetibili.

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La morte di Kurt Cobain fu un trauma per la mia generazione.

Era la generazione degli adolescenti negli anni ’90, quelli né carne né pesce ma che sapevano ancora bramare.

Kurt, con quel suo fare ieratico suo malgrado, quella emotività intrisa di male di vivere, con quegli occhi azzurri spalancati come finestre sul mondo, era il nostro messia.

Come gli animali pisciano per terra per delimitare il proprio territorio, con le sue canzoni ha delimitato i confini di un’anima che odorerà per sempre di teen spirit.

Non suonava per diventare famoso. Come molti ragazzi venuti dopo il Vietnam e il Watergate, Kurt aveva assimilato una sorta di cinismo, di disincanto. Ed era ossessionato dall’autenticità.

Ma c’erano trappole disseminate in quel fervore per l’autenticità: innanzitutto il problema di come riconoscerla, e poi la facilità con cui poteva confondersi con l’ennesima posa infarcita di cliché.

Dopo il traumatico divorzio dei genitori Kurt aveva condotto una vita nomade. La cosa che lo aveva salvato era la musica. Voleva fare dischi e avere un pubblico. Solo che voleva farlo alle sue condizioni.

Scelse di essere prodotto da una major soltanto per poter arrivare ad una platea più ampia, ma si rese conto che la faccenda era più grande di lui.

Kurt non accettò di diventare una macchina per fare soldi, il successo gli tolse entusiasmo e veridicità.

La musica non gli sembrò più sincera. Poteva rinunciare alla musica, ma in un certo senso sarebbe stato come tradirla. Perciò si tenne la musica e rinunciò alla vita.

Kurt era vero, era puro.

Troppo per questo mondo abietto.

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