Bruciare La Frontiera – Intervista Carlo Greppi

Bruciare La Frontiera – Intervista Carlo Greppi

Carlo Greppi dopo l’illuminante recensione del suo Bruciare La Frontiera, espande la nostra conoscenza, e la nostra coscienza, degli argomenti trattati nel libro.

Com’è nata l’idea di Bruciare La Frontiera?

Rendendomi conto che i luoghi in cui sono stato tante volte da bambino prima, poi da adolescente e infine da adulto erano nel frattempo tornati a essere frontiere insormontabili, sprangate, nelle quali troppi ragazzi e ragazze – e non solo – rischiano la vita oggi, perché il confine è di nuovo presente, presidiato. Ho voluto mettere Francesco e Kappa, due dei protagonisti del mio romanzo precedente (Non restare indietro), su quel confine da Ventimiglia all’alta valle di Susa, per vedere se erano cresciuti veramente, e che cosa avrebbero potuto imparare da questa “crepa” del nostro tempo. Con la conoscenza e con l’esperienza, con la testa e con il cuore.

Tra i protagonisti del libro possiamo annoverare anche il concetto di confine?

Assolutamente sì, e credo che dal libro emerga come sia un concetto che sfugge alle nostre definizioni, persino alle nostre percezioni.

Il confine concreto è una linea del tutto arbitraria tracciata dagli uomini, che in molti casi cambia costantemente nel tempo.

Ma che ha degli effetti devastanti sulla vita delle persone – il confine di cui si parla in Bruciare La Frontiera, ad esempio, spesso uccide. Oggi come ieri.

Cosa rende un uomo libero?

Mi verrebbe da rispondere la sua volontà, ma sono estremamente consapevole del fatto che in alcune situazioni non è affatto così. E non penso solo al Novecento, ma anche a chi oggi vive in paesi in cui vengono violati sistematicamente i propri diritti, cerca la libertà altrove e viene respinto, criminalizzato, additato come nemico. Questo capita nell’Italia e nell’Europa in cui viviamo come oltreoceano – il fratello di un ragazzo che ha letto Bruciare la frontiera, ad esempio, è morto nel tentativo di passare il confine tra Messico e Stati Uniti.

Sono migliaia le persone che ogni anno, cercando di essere libere, vengono uccise dalle nostre frontiere.

E le responsabilità dei ministri della paura, l’attuale ministro dell’interno italiano su tutti, sono immense: non possiamo indietreggiare di un passo e dobbiamo condannarli senza riserve.

Perché abbiamo bisogno di frontiere?

Credo che abbia molto a che vedere con il bisogno di sentirci parte di una comunità, con la paura che troppo spesso abbiamo degli spazi aperti, del confronto, delle situazioni che percepiamo come non rassicuranti, come “diverse”. Che sono, solitamente, quelle che non conosciamo o che conosciamo meno.

Se non consideriamo la militarizzazione che ogni tanto – troppo spesso – viene messa in atto, e che costa un sacco di soldi, le zone di frontiera solitamente sono fluide, continuamente percorse da migranti stagionali e lavoratori frontalieri, occasione di contatti umani e professionali.

Sto rispondendo a questa intervista dalla Svizzera, ad esempio, un paese che come la Francia raccontata nel mio libro ha gestito e gestisce – spesso in maniera ingiusta – un enorme flusso di migranti “economici”. Italiani.

Secondo te i media danno giusto risalto alla questione dei migranti?

La questione è enormemente sovrarappresentata, questo lo sappiamo.

Nella percezione della maggior parte degli italiani i flussi migratori in entrata sono molto superiori a quello che sono nella realtà, e quelli in uscita sono imparagonabili.

Sappiamo invece che, spesso, si equivalgono, e che solo nel 1973 l’Italia ha visto per la prima volta un numero maggiore di ingressi rispetto a quello delle uscite. E gli italiani continuano a essere un popolo di migranti: decine di milioni hanno cercato e cercano fortuna altrove, e questo i media dovrebbero ricordarlo ogni giorno. Per fortuna ci sono molti giornali, italiani e stranieri, che fanno un’opera meritoria, andando alle radici dei problemi e raccontando verità anche scomode: penso al “Guardian” per la Gran Bretagna, a “Libération” per la Francia oppure, qua in Italia, ai reportages de “L’Espresso”. Ma la televisione – che tendo a evitare – e i social – dove domina un odio irrazionale, spaventoso – la fanno purtroppo da padroni. E bisogna rispondere, colpo su colpo, alle false rappresentazioni e alla furia identitaria. Che, fatemelo dire da storico, sappiamo dove ci possono portare.

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Cosa spinge un uomo a scappare dalla propria terra?

Ognuno sa in cuor suo quale sono state le ragioni che lo hanno spinto a cercare il proprio futuro altrove.

Spesso sono condizioni di vita insostenibili per via di guerre, persecuzioni, cambiamento climatico, carestie, ma in fondo ciò che accomuna tutti i migranti è, semplicemente, la voglia di migliorare la propria esistenza.

Cercando lavoro dove si pensa di trovarlo – ricordiamo che l’Italia è nella maggior parte dei casi un paese di transito – oppure raggiungendo amici e familiari in luoghi dove si sono ambientati. Ma lasciare la propria terra, anche se è devastata da un conflitto o se è diventata invivibile, non è mai facile. Tante delle persone che arrivano o cercano di arrivare sulle sponde europee, inoltre, sono giovani o giovanissime. E in quell’età hai una percezione del pericolo diversa: siamo stati tutti adolescenti, e dovremmo ricordarcelo.

La paura di essere ‘beccati’ mentre si emigra, è spiegata benissimo in Bruciare La Frontiera, fantasia o testimonianze dirette?

Entrambe le cose. Purtroppo (e per fortuna per loro, quando ce la fanno) i ragazzi passano e vanno, mentre sono moltissimi gli attivisti – tra i quali tanti amici, alcuni dei quali hanno seguito la stesura del libro – che presidiano quella frontiera segnalando gli abusi delle forze dell’ordine e l’inqualificabile gestione del flusso di persone a livello sanitario e umano. Il personaggio di Ab è il tentativo di fare una sintesi, raccontando attraverso i suoi gesti e i suoi pensieri le infinite sfaccettature che possono assumere i giorni infiniti passati in frontiera, a cercare di attraversarla.

Un mondo ideale lo vedresti senza più frontiere?

Sarebbe probabilmente irrealistico, inverosimile, anche se questo non significa che non lo si possa sognare.

Non abbiamo forse tutti diritto – e forse anche un po’ il dovere – a credere in un’utopia?

Molto più realizzabile è invece un mondo in cui le frontiere continuino ad esistere, ma non per respingere e per uccidere. Le frontiere tra stati nazionali devono assolvere il loro ruolo, e cioè possono servire per controllare chi entra ed esce e cosa porta con sé. Non esiste che alcuni passaporti siano dei passepartout e altri siano delle condanne a morte, o qualcosa di molto simile. La libertà di circolazione deve essere garantita per tutti e per tutte. Se no l’Europa dei diritti è solo l’Europa delle chiacchiere.

Progetti per il futuro?

Molti, sì. Sto scrivendo un libro che tra qualche mese sarà finito: non vi anticipo molto ma racconta anche di come si può credere in un mondo più giusto. Attraverso le storie di alcuni protagonisti del Novecento – noti e sconosciuti – ci fa intravedere quel mondo lì, o almeno lo spero. Perché dobbiamo sempre ricordarci che il corso della storia lo si può modificare. Con determinazione, coraggio, anticonformismo, e un pizzico di follia.

BRUCIARE LA FRONTIERA – FELTRINELLI – 2018

 

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