L’Atlante di William T. Vollmann – Recensione

L’Atlante di William T. Vollmann – Recensione

L’Atlante, una citazione:

“Dicono che siamo fatti di polvere e argilla. E forse nei luoghi della povertà, dove non si nasce con la salute, l’istruzione, la protezione e la sicurezza, neanche l’anima è un diritto di nascita.”

William T. Vollmann è uno scrittore che ha bisogno di vivere in prima persona le cose per poter poi narrare storie.

Dal Polo alla Jugoslavia devastata dalla guerra civile; dalla Somalia alle autostrade americane, dalla Thailandia a Pompei. Non c’è quasi territorio o contesto umano che non abbia esplorato e raccontato.

L’Atlante è, letteralmente, la cronistoria di questa erranza continua e irrequieta, ricostruita attraverso cinquantadue oggetti narrativi diseguali per lunghezza e per tono, ma accomunati dalla stessa brutale innocenza e umanità.

I frammenti e i racconti sono organizzati in una struttura palindroma: il primo testo viene ripreso dall’ultimo, il secondo dal penultimo, e il racconto centrale contiene tutti gli altri, come una silloge ideale.

Alcuni testi rappresentano una versione compressa dei libri che Vollmann al momento della pubblicazione aveva già scritto.

Tanto basta per lasciar capire che L’Atlante è un viaggio insieme fisico e metaforico, una cartina attraverso la quale guardare dentro anfratti esistenziali. Una mappa per orientarsi nel mondo «fuori» e al tempo stesso scoprire l’universo narrativo di uno scrittore unico.

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Nella prefazione l’autore dichiara il suo omaggio ai Racconti in un palmo di mano di Yasunari Kawabata, opera che – come scrive – legge ogni sera prima di addormentarsi.

L’Atlante però non sembra mosso da alcun desiderio di pace o quiete: tutte le storie traggono ispirazione dagli abissi più oscuri e violenti delle società con cui lo scrittore è venuto a contatto.

Istantanee forti e decadenti che mostrano un’umanità lontana da ogni possibile salvezza. Anzi, fermamente indirizzata verso un’autodistruzione ostinata e totale.

“E pensai: poco importa chi sei o cosa fai, la vita è una guerra.”

Vollmann scorre le sue carte geografiche e scende negli inferi con l’intento di sperimentare su sé stesso il degrado che lo circonda e affascina.

Tra pipe per il crack ricavate da bottiglie di vodka, corpi crivellati di pallottole o smembrati dalle bombe e braccia martoriate dalla tossicodipendenza, non c’è baratro dal quale L’Atlante ci risparmi.

La vita umana è rappresentata in ogni sua forma, per quanto abietta.

Ma – e qui sta la grandezza di questi testi tanto cupi, disturbanti ma spesso venati di una ironia struggente – Vollmann non è mai mosso da un morboso intento documentaristico né dal desiderio di strappare al lettore un facile brivido di disgusto.

Nel sangue, nell’abbandono, nel sesso – tutti sgradevolmente tratteggiati con dovizia di dettagli – si nasconde una eccezionale empatia, una comunione fraterna che provoca un moto di umana tenerezza in questi tempi connotati da relazioni virtuali e da malcelata misantropia.

Soffermandosi sulla incurabilità di quel dolore che riguarda indistintamente tutti i personaggi di queste geografie dello sfacelo, l’autore sembra voler trarre in salvo tutte le vite derelitte che incontra, donando loro, quanto meno sulla carta stampata, quella redenzione negata in vita.

L’Atlante appare come un’Odissea, capace di cantare i dolori e le (poche) gioie dell’essere fallibili.

Vollmann, pur non offrendo espiazione a larghe mani, sembra rassicurarci.

Rendendo chiaro ai nostri occhi che, malgrado tutto, non siamo soli in questo brulicante formicaio chiamato Terra.

E che, anche se siamo un po’ bacati, in fondo va bene così.

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L’ATLANTE – MINIMUM FAX – 2023

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