Recensione di La Venere Di Taskent – Leonardo Fredduzzi


La Venere Di Taskent Libri

La Venere Di Taskent, una citazione:

Il lavoro, o meglio l’ossessione per la ricerca della verità, lo preservavano, in un certo senso, dal rischio di dover riflettere sulla propria vita. Non come certe persone che sembrano capaci di analizzare nei minimi dettagli le zone grigie della loro esistenza. Kovalenko non aveva mai pensato seriamente di mettersi seduto, estraniarsi dal mondo e fare un bilancio. Almeno fino a quel momento.

Unione Sovietica, 1967. Una telefonata alle prime ore del mattino sveglia il commissario Kovalenko perché il corpo senza vita di una giovane donna è stato ritrovato sotto un cumulo di fango e neve.

La vittima è Anastasija Timokina, affascinante e ambiziosa attrice uzbeka giunta da Taškent a Mosca, ove lavorava al teatro Taganka, per far carriera.

La sera precedente l’attrice aveva recitato in uno spettacolo e si era intrattenuta con tutta la compagnia fin dopo le dieci. Intorno alle 6 del mattino dopo viene ritrovata morta dalla portiera di un palazzo, in una zona di vecchie case risalenti agli anni della rivoluzione.

Le indagini del commissario Kovalenko e della sua squadra partono quindi dal teatro Taganka, ove gravitano ambigui personaggi che conoscevano la ragazza e ne avevano condiviso l’ambito lavorativo.

Il direttore, Valerij Lebedev, sospettato di dissidenza dal regime, è da tempo tenuto sotto controllo dagli organi preposti; lo scontroso amministratore Platon Sobolev, sembra svolgere irreprensibilmente il proprio lavoro mentre il critico Volodja Miller non sembra condurre la vita del tipico intellettuale.

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Tutti e tre hanno avuto una relazione con Anastasija, tutti e tre hanno qualcosa da nascondere. Un’ambiguità di fondo che li accomuna alla vittima, giovane donna di una bellezza crudele, con problemi psichici e di depressione, in cerca della sua libertà fuori dalla natia Taškent, prima a Praga e poi nella Mosca che le risulterà fatale.

In La Venere Di Taskent, realtà e finzione, teatro e vita vera si mischiano indissolubilmente. Spetterà al commissario Kovalenko il compito di sbrogliare la complessa matassa, dovendo oltretutto agire in fretta, prima che il sospettato numero uno venga dato in pasto al tritacarne della giustizia da un procuratore un po’ troppo sbrigativo.

Kovalenko ama fiutare, cercare le tracce, soppesare gli elementi, forse anche più della giustizia in senso assoluto. Il commissario non è un apparatčik, un mero burocrate, né tantomeno il poliziotto che sa esattamente cosa fare o il duro maschilista, tutto alcol e sigarette, a caccia di donne e guai.

Kovalenko è soprattutto un uomo sostenuto dai dubbi, che si rifugia nella parte più alta dell’isola del non detto e che alimenta la propria quotidianità con l’empatia verso la condizione umana. Un uomo che sembra un vinto, anche quando non lo è affatto. In questo mi ricorda tanto il personaggio di Arkady Renko, protagonista di “Gorky Park”, portato magistralmente sullo schermo da William Hurt.

Nato nel 1976, Leonardo Fredduzzi dal 2007 lavora presso l’Istituto di cultura e lingua russa di Roma e La Venere Di Taskent è il suo primo romanzo, nel quale rende perfettamente la complessità culturale ed emotiva della capitale sovietica. Ci Descrive una Mosca decadente che sembra la mefitica Venezia resa dalle pagine di Thomas Mann.

Tuttavia, forse il maggior pregio del libro è che regala indelebilmente alla nostra memoria questo Maigret slavo – che medita ed elucubra sorseggiando una birra invece che un bicchiere di Calvados – al quale è impossibile non affezionarsi.

Perché, come i gatti, prende la vita così come viene, di sguincio.

LA VENERE DI TASKENT – VOLAND – 2018

 

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