Recensione di Dei Miei Vini Estremi – Camillo Langone

Recensione di Dei Miei Vini Estremi – Camillo Langone

Dei Miei Vini Estremi, una citazione:

«Non avevo dubbi, fino all’inizio dei novanta il Lambrusco medio era un dispiacere e quello basso, quello da poco prezzo, da bettola, del tutto imbevibile, puzzolente quando contadino, bruciante quando industriale. Spesso pure dolciastro, vuoi per imperizia, per incapacità di gestire la fermentazione, vuoi per malizia, per coprire di zucchero le magagne. Non per nulla, pur essendo nato e cresciuto in Emilia, la mia formazione vinicola è stata sangiovesista ovvero tendenzialmente romagnola. E pensare che oggi considero il Lambrusco il vino migliore del mondo e il Sangiovese, nelle sue innumerevoli varianti, un problema difficile da risolvere. Perché nel frattempo in Romagna e in Toscana il vino si è fermato o magari è andato nella direzione sbagliata, proprio mentre il Lambrusco viveva un incredibile Rinascimento anzi un Nascimento ..»

Dei Miei Vini Estremi è un libro sui vini? Non proprio. Una guida alle cantine? Neanche.

Pensare di incasellare l’ultimo libro di Camillo Langone in una definizione sarebbe oltremodo sbagliato. Anzi, chi cerca una guida ai vini è pregato di non comprare questo libro. Se invece cercate un libro dove ci sono storie connesse al vino, accomodatevi, che sarà un viaggio gaudente.

Agli occhi di un devoto eterodosso come Langone, il degustatore amatoriale di oggi ha come unico (dannoso) interesse la «trasparenza» delle etichette e l’«onestà» delle certificazioni biologiche. Continua ad accostarsi alla bevanda che mette in contatto Dio e gli uomini come un sonnambulo, inconsapevole di quali eredità stia dissipando tra i finti Bordeaux e le «spremute di legno» dei vini in barrique, gli onnipresenti Chardonnay e le inutili fiere dai nomi anglofoni. Gli esterofili ovini e belanti, il conformismo e l’assimilazione mettono in serio pericolo il nostro gusto ed i nostri retaggi.

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Contro l’appiattimento del palato e la pervasività di cru stranieri, in questo excursus tra i prodotti e i protagonisti della più umana e nobile delle culture, Langone si inserisce nella tradizione di Mario Soldati e Paolo Monelli, scrittori prestati al racconto della tradizione vinicola e del paesaggio italiano, raccontando la geografia del Paese con il rispetto religioso dell’innamorato, insofferente al mito farlocco del dio “bio”, nella consapevolezza che «l’unico vino naturale è l’aceto».

In questa bagatella in prosa si rappresenta una geografia dell’Italia eccentrica e «peculiarista». In cui accanto ad alcune cantine nobili si trovano storie di vini rarissimi e uomini tutti d’un pezzo, autoctoni fino al parossismo, dove la lingua concisa e tagliente dell’autore ridà senso al mondo dal sapore globalizzato dei wine instagrammer.

Camillo Langone scrive su Il Foglio e su Il Giornale, occupandosi in particolar modo di letteratura, architettura, arte, enogastronomia e religione. Ed è un edonista, un bulimico, un inattuale come direbbe Nietzsche, come piacciono a me.

Dei Miei Vini Estremi, con pagine che per arguzia e gusto mi ricordano tanto quelle di Kingley Amis e di Gianni Brera, racconta intense storie di donne e uomini dietro piccole e grandi imprese enologiche. Di pezzi di vita. Territori di nicchia. Tralci e costoni, che danno vita a etichette più o meno note, ma sempre irregolari, eccentriche, talvolta irriverenti.

Un libro che ci racconta la storia di una passione. Per quanto una passione possa essere spiegata a parole.

DEI MIEI VINI ESTREMI – MARSILIO – 2019

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